Narratore notturno. Aspetti del racconto nella Gerusalemme liberata

May 21, 2013
Narratore notturno. Aspetti del racconto nella Gerusalemme liberata Book cover

di Francesco Ferretti 
Pacini, 393 pp., 25 €

DALILA COLUCCI - Era la notte : Spunti (mancati) per la decifrazione di un tema 

“Era la notte, e ‘l suo stellato velo /chiaro spiegava e senza nube alcuna...”: le ripetute evocazioni di paesaggi notturni – siano essi idillici, come il fondale della fuga d’Erminia, o funesti, come “l’ombre” fiammeggianti che preparano l’attacco a sopresa di Solimano al campo crociato – punteggiano la Gerusalemme Liberata di languidi riflessi lunari, dando voce a una poesia vaga e sublime accordata all’interiorità dei personaggi e a un mondo sempre “fra la notte e fra ‘l dì dubbio e diviso”. Ciò che il lettore si aspetta (e spera), dunque, dal suggestivo richiamo al Tasso come Narratore notturno – che Francesco Ferretti sceglie quale cartiglio esplicativo del suo saggio sulle forme narrative del poema – è non solo una densa trattazione delle grandi “opere notturne” della Liberata, quanto uno studio ravvicinato di quel mirabile velo stilistico disteso dalla mano accorta del poeta sopra i segni obliqui di un capolavoro d’intarsi.

Purtroppo l’allusiva potenzialità del titolo delude, non essendo pienamente sviluppata; ci si troverà infatti dinanzi a un testo pregevole e ben organizzato sì, ma aridamente teorico, che punta all’esame delle modalità di composizione della Gerusalemme, sulla scorta dei più vari testi tassiani e non: dai padovani Discorsi dell’arte poetica (che ne accolgono il primo progetto tra il 1561 e il 1562) alle Lettere e alle Rime; dal precocissimo abbozzo veneziano Gierusalemme al Rinaldo; e così via, passando attraverso più o meno entusiasti critici e commentatori del tempo (da Ludovico Dolce a Galileo), fino a giungere ai più tardi Discorsi del poema eroico (1594), la cui “curvatura dottrinale e neoplatonica”, propria di un Poeta più inclide al docere e al prodesse che al delectare, prefigura già l’autocensura della Conquistata. In questa calibrata collazione dottrinale – non priva di un lodevole sforzo sintetico – di lavori precedenti, poche sono le novità autentiche e ancora meno gli spunti utili all’interpretazione: mentre un’eccesso citazionale rende la scrittura pesante, perdendosi la voce dell’autore in un mare di virgolette e risultando così il saggio un prodotto accademico lievemente ripetitivo. Quest’ultimo si divide in due macroblocchi tematici: il primo e il più ampio (occupa infatti più di duecento pagine) è dedicato al problema della verosimiglianza; il successivo intende invece soffermarsi sulle tecniche di costruzione del racconto e avrebbe di certo costituito la parte più interessante del libro, data anche la scarsezza di questo genere di analisi sulla Gerusalemme, se solo fosse stato adeguatamente corredato di esemplificazioni. Al contrario, i riferimenti pratici – ovvero i brani poetici estrapolati dalla Liberata allo scopo di chiarire alcuni dei meccanismi e dei paradigmi rintracciati a livello virtuale da Ferretti – scarseggiano e neppure vanno esenti da alcuni equivoci: è il caso del canto VI, sistematicamente eluso e confuso con il VII. La seconda parte del volume (a sua volta suddivisa tra questioni di Composizione e Energia) risulta per altro collegata in maniera non del tutto armonica (quanto ad ampiezza e a densità di contenuti) con la precedente, in cui convergono invero i maggiori sforzi di Ferretti. Il quale si propone di seguire la “perpetua evoluzione del concetto di verosimile nella teoria e nella prassi di Tasso epico fra gli anni Sessanta e Settanta del Cinquecento”; ma benché egli dimostri un’onnisciente frequentazione del background filosofico classico e volgare del poeta, di prassi c’è, ancora una volta, ben poca traccia. Ferretti preferisce piuttosto indugiare lungamente sulla coppia endiadica espettazione e diletto – accertata summa del verisimile – e dunque sulle reciproche implicazioni di imitazione e veridicità, rintracciando le basi di quella “licenza del fingere” difesa da Tasso come necessaria alla creazione del poema eroico: terza via stilistica capace di conciliare, alternandole, norma e uso, rispettivamente rappresentate dalla disastrosa prova de L’Italia liberata dai Goti e dal celebrato best seller ariostesco. È noto come Tasso intendesse prendere le distanze dai moduli romanzeschi del Furioso, reo di aver trasgredito le regole di composizione fissate dagli antichi maestri; pure, egli era consapevole che l’applicazione fedele e assoluta dei principi aristotelici, come della lezione omerica (e virgiliana), aveva determinato il totale fallimento, presso il gusto del pubblico, dell’epos storico avanzato dal Trissino. A correggere il quale – nell’ottica di una rifondazione dello stile magnifico – essenziale diveniva allora la ricerca di un nuovo metodo narrativo, anti-ariostesco sì, ma ugualmente in grado di conquistare l’opinione dei lettori, la loro appassionata complicità. Ferretti richiama pertanto nel dettaglio l’ideale tassiano di mimesi, così come la travagliata elaborazione di un meraviglioso epico (e poi cristiano), di marca e finalità tutte diverse da quello tragico, come sostenuto sulla base del capitolo XXIV della Poetica. Indagato è altresì il metodo storico cui il Tasso si appella per formulare una sembianza della verità: sono cioè esaminati i vari modi di rappresentazione del vero, del falso e del soprannaturale, tra loro inestricabilmente combinati; e descritta è la dinamica tra architrave della fabula – articolata a partire delle cronache e assunta a quinta teatrale su cui collocare invenzioni naturali e non – ed episodi fantastici della Liberata. Attraverso la fondante tensione tra errore e unità, Ferretti si concentra in particolare sull’evoluzione interna dei modi del soprannaturale, che dai primi canti – in cui gli emissari infernali raramente svolgono un ruolo performativo diretto, limintandosi ad agire come semplici istigatori delle azioni umane – passa in seguito a più raffinate forme di onirismo. Per dar conto della varietà delle finzioni, il saggio approfondisce quindi (in maniera invero non sempre coerente) lo statuto della voce narrativa, che non è mai presente sulla scena, come accade invece in Ariosto, restando relegata nel coro o nella dialettica dei narratori di secondo grado, di cui pullula la Gerusalemme; per quanto le considerazioni più interessanti – quelle relative alla traduzione mimetica delle passioni umane e all’interiorizzazione morale della realtà – non trovino poi riscontro concreto nell’analisi della dimensione-personaggio, di cui Ferretti sottolinea la novità psicologica senza però superare la riproposizione di luoghi comuni (come la ricorrenza del tema della dissimulazione, o i giochi di specchi tra protagonisti). Lo sfoggio di erudizione del libro non basta, del resto, a colmare le lacune di una casistica testuale presente sì, ma sempre marginale rispetto al nucelo astratto della discussione. Assai più pregevole, invece, specie nella prima sezione, il sotterraneo – ma percepibile – ricostruirsi della storia del Tasso e della sua scrittura: l’assenza di una pur breve nota biografica è infatti risolta nel calibrato inseguirsi del progetto della Gerusalemme e delle varie fasi della vita del poeta (specie nei dolorosi turning points relativi al suo difficile rapporto con la casa d’Este e alle vicende della censura), che sono ripercorse attraverso il contrappunto dei suoi testi e carteggi. Gli snodi iniziali del saggio offrono inoltre una dettagliata descrizione delle opere che hanno preceduto e condotto al poema; e la stesura dello stesso – insieme con la dimensione sincronica delle sue varianti – è documentata con dovizia di particolari, mediati dalle più varie fonti epistolari e con saldo metodo filologico, culminando negli anni della creazione ferrarese (post 1571) e nelle stesure multiple derivate dalla revisione romanza (iniziata nel 1575) . L’assidua interrogazione sullo stato del testo su cui effettivamente si svolgono e ricadono le sue osservazioni critiche, è in effetti l’attitudine più meritevole di Ferretti, che con ciò realizza di certo una guida di lettura che tocca quasi ogni prova tassiana – con limitate incursioni solo alle Rime – e la collega alle altre, enucleando una coerente trama significante.
 
Su di essa la restante parte del libro vorrebbe ancorare lo studio delle costanti strutturali dell’opera: esplicitando cioè quel passaggio – mancato, ancora una volta – dalla teoria alla prassi. Ferretti vi analizza il sistema di spinte e controspinte che organizza la Gerusalemme, identificando tre criteri tassiani del racconto (interezza, grandezza, varietà nell’unità) che rispondono ad altrettante qualità richieste al lettore (intelligenza, memoria, vista interiore); riflette dunque sulle cornici che imbrigliano il testo e ne seguono i continui e impercettibili trapassi dai nodi agli scioglimenti, dalla “favola semplice e patetica” agli episodi perturbanti – pieni di peripezie e agnizioni – che ne fanno un vicenda a un tempo lineare e mista, garantendo l’“uniformità nel composito” e l’impressione di “venti canti legati insieme”. L’ultima questione toccata dal saggio è quella dell’energia, termine polisemico – frutto della combinazione tassiana dei vocaboli greci enàrgeia (evidenza) e enèrgeia (efficacia visiva in azione), adoperati rispettivamente da Demetrio Falereo e da Aristotele – che rimanda a un’evocazione drammatico-teatrale, grazie alla quale il lettore è condotto a vedere le azioni narrate come se vi fosse testimone. Di tale potenza scenica, Ferretti individua nella notte – che finalmente appare, dopo lunga attesa, a titolare il penultimo paragrafo del volume – la manifestazione più piena e simbolica. Purtroppo egli non va oltre, limitandosi a riconoscere nell’invocazione notturna del canto XII – che precede il drammatico duello tra Tancredi e Clorinda – il miglior esempio del funzionamento dell’energia: sebbene la notte, ora placida e molle, ora orrida e sfocata, a un tempo trasparente e oscura, sia indicata quale fondale per eccellenza della sostanza passionale e della effusività semantica su cui si stagliano i tratti ambigui di un universo intimo e sfuggente, Ferretti lascia tuttavia completamente da parte qualsiasi accenno all’evoluzione del tema, fermandosi a una sua superficiale e troppo generica definzione.
 
Alla fine del libro la Gerusalemme resta davvero, come scrive Ferretti, “una grande fabbrica sentimentale, costruita appositamente per alloggiare al proprio interno le contraddizioni del bene e del male; i misteri profani di una condizione umana sospesa fra dovere e piacere; le speranze e i sogni che riflettono l’esperienza dei sentimenti e la loro insondabile verità”; ma delle reali strategie del suo “fabbricator notturno “ – come Tasso si autodefinì nell’omonimo madrigale , composto poco prima della riscrittura in senso censorio del poema – resta poco o nulla: il libro tace là dove avremmo voluto che cominciasse, lasciandoci in preda a una profonda, inquieta, insoddisfazione.